Mons. Juan Ignacio Arrieta (segretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi)
La Chiesa riconosce nel Romano Pontefice il “supremo amministratore e dispensatore di tutti i beni ecclesiastici” (c. 1273 CIC), in una espressione presa dal precedente c. 1518 del Codex del 1917, sebbene con alcune importanti modifiche. Quale sia la consistenza di tale posizione del Papa e come venga declinata in concreto va tuttavia precisato, anche in relazione con altra rilevante prescrizione del vigente Codice di diritto canonico, secondo la quale “la proprietà dei beni appartiene alla persona giuridica che li ha legittimamente acquistati” sempre, però, “sotto la suprema autorità del Romano Pontefice”.
Il punto di partenza per la corretta comprensione del ruolo del Papa nel sistema patrimoniale della Chiesa risiede nel principio della destinazione universale dei beni ecclesiastici. Infatti, i beni ecclesiastici sono destinati al raggiungimento delle finalità ecclesiali descritte dal c. 1254 § 2 (culto, sostentamento del clero, opere apostoliche e assistenza ai poveri), finalità che giustificano il diritto nativo che la stessa Chiesa proclama di possedere beni temporali (cfr. c. 1254 §1) e il fatto che nessuno dei suoi titolari possa vantare un diritto di proprietà assoluto su di essi. È proprio a garanzia di questa comune destinazione posseduta da tali beni che la Chiesa riconosce nel Papa – e subordinatamente, poi, nel resto della gerarchia – una posizione particolare nell’amministrazione dell’intero patrimonio, che, però, riguarda solo quella concreta categoria di beni che nella disciplina canonica hanno la condizione di “beni ecclesiastici”: quelli in capo a persone giuridiche pubbliche della Chiesa (cfr. c. 1257 § 1).
Una Dichiarazione del 12 febbraio del 2004, del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, ha precisato il contenuto della condizione di Supremo Amministratore dei beni ecclesiastici: “Per quanto riguarda il governo della Chiesa in materia di beni temporali, spetta al Romano Pontefice garantire che essi siano correttamente ordinati al fine loro proprio”.
Due sono state le teorie che hanno cercato di elaborare giuridicamente tale posizione apicale del Papa. Da un lato, la vecchia teoria del dominio diviso, ereditata dal diritto romano, che distingueva un “dominio eminente o diretto” del Sommo Pontefice e un “dominio utile” in capo ai titolari dei beni concreti, i quali avrebbero così una sorta di ‘proprietà limitata’ su di essi in ragione delle prerogative dominicali riconosciute al Papa.
Di fronte a questa, si è sviluppata in tempi più moderni la teoria della potestà di giurisdizione che vede nel Papa non un concorrente dominicale dei proprietari dei beni, ma il titolare di una potestà di governo nella Chiesa, che è chiamata a moderare il regime giuridico e, talvolta, a intervenire sulla concreta amministrazione dei beni.
In tale senso, il c. 1273 CIC ha precisato, rispetto della disciplina anteriore, che la condizione di amministratore supremo è basata nel “primato di giurisdizione” (“vi primatus regiminis”), lasciando definitivamente da parte la dottrina del “dominio diviso”. L’autorità del Papa non risiede, dunque, su alcun titolo patrimoniale di dominio sui beni – il Papa non è in nessun modo il proprietario dei beni –, bensì “in forza del suo ufficio” in virtù del quale gode di “potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente” (c. 331).
L’amministrazione dei beni ecclesiastici, cioè di quei “beni temporali appartenenti alla Chiesa universale, alla Sede Apostolica e alle altre persone giuridiche pubbliche nella Chiesa” (c. 1257 § 1) spetta, dunque, “a chi regge immediatamente la persona cui gli stessi beni appartengono” (c. 1279 § 1). La proprietà di questi beni è sempre della singola persona giuridica, che risponde sempre in proprio. All’autorità gerarchica – e in primis al Papa – vengono, però, riconosciute determinate attribuzioni di natura amministrativa a salvaguardia della destinazione di tali beni, la cui concreta consistenza risulta dall’insieme della disciplina patrimoniale.
Infatti, anche se i canoni del diritto patrimoniale del Codice non lo abbiano sviluppato concettualmente in modo sufficiente, il ruolo del Romano Pontefice in questa materia va interpretato nel contesto della dottrina sull’episcopato elaborata dal Concilio Vaticano II. Tale dottrina segnala, infatti, una più profonda differenza tra i due testi del Codice del 1917 e il Codice del 1983, che affermano la condizione di Supremo Moderatore del Papa poiché quella adesso in vigore deve essere interpretata e attuata in un quadro di collegialità e di dialogo con le responsabilità specifiche che i Vescovi, Ordinari del luogo, hanno in materia.
Con tali premesse, la condizione del Papa come Supremo Amministratore è determinata dalla disciplina giuridica della Chiesa. Al Romano Pontefice si riconosce in materia: 1°) capacità normativa universale, in base alla quale può stabilire la comune disciplina giuridica che deve guidare l’amministrazione dei beni ecclesiastici, sostanzialmente condensata attualmente nei cc. 1254-1310 del Codice di Diritto Canonico; 2°) capacità di controllo preventivo degli atti di amministrazione straordinaria (operazioni che pongono a rischio beni ecclesiastici pregiati), per realizzare i quali deve concedere licenza (normalmente attraverso i Dicasteri della Curia Romana a ciò deputati); 3°) capacità di controllo successivo, principalmente attraverso le visite ad limina (ogni cinque anni) dei Vescovi Ordinari di luogo che devono rapportare sullo stato patrimoniale delle persone giuridiche della Chiesa poste nelle rispettive diocesi sotto il loro controllo.
In circostanze eccezionali, che a suo giudizio lo possano giustificare, nella sua qualità di supremo dispensator, il Papa può realizzare anche diretti interventi sul patrimonio di una persona giuridica in base alla suprema e immediata potestà di giurisdizione che possiede (Hervada, 460), avocando eventualmente a sé funzioni decisionali che normalmente corrispondono agli amministratori di controllo dei rispettivi Vescovi o Superiori. Nella sua condizione di supremo “dispensator”, egli può anche autorizzare trasferimenti di proprietà da un soggetto ad un altro o condonare debiti assunti.
Come segnalava la già citata Dichiarazione del Pontificio Consiglio del 2004, così “come avviene nella società civile, anche nella Chiesa la funzione pubblica della proprietà dei beni può legittimare, in casi limite, degli interventi straordinari da parte dell’autorità competente, che potrebbero perfino arrivare all’espropriazione; tale potere, di cui gode il Romano Pontefice, va inteso nel rispetto della natura sopra ricordata della potestà primaziale e delle condizioni di giustizia insite nell’esistenza di una proprietà di cui sono titolari le singole persone giuridiche.”
31 ottobre 2021